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Raccontare del padre per raccontarsi. Geologia di un padre di Valerio Magrelli

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di Antonio Coiro

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Un padre, disse, è una galleria immersa nel buio più profondo, in cui camminiamo alla cieca cercando una via d’uscita.

Roberto Bolaño, 2666

I. Già dal 2003, con Nel condominio di carne, la traiettoria poetica di Valerio Magrelli aveva conosciuto un primo avvicinamento alla prosa. Seguirono poi La vicevita. Treni e viaggi in treno (2009) e Addio al calcio (2010).
Le prose di Magrelli estremizzano e ampliano una pratica presente sin dai suoi esordi poetici: il «costante cortocircuito tra motivi fisici o momenti di vita quotidiana e il loro immediato raddoppiarsi […] in riflessione astratta»[1], potentemente presente già in Ora serrata retinae (1980). La scrittura poetica magrelliana procede in un continuo districarsi tra le cose del mondo: dalla tematica persistente del corpo a quella della meta-poesia, il poeta cerca costantemente di dare forma al caos contingente attraverso uno stile nitido e geometrico. Questo atteggiamento razionalizzante nelle prime due raccolte prende le forme di una auto-difesa nostalgica da un fuori babelico; frequenti sono le tematiche del sonno e dell’atto della scrittura, della morte, delle potenzialità della mente e del pensiero: l’opposizione di un’autoreferenziale geometria interiore all’eterna dispersione del fuori. Soprattutto nel folgorante esordio del 1980, ma in parte anche nel successivo Nature e venature (1987), la scrittura di Magrelli è un continuo rimuginare sulle possibilità discorsive di un io che diventa «ricettore di trame e di segnali, […] soggetto gnoseologico»[2].
Seguendo tracce già presenti nella raccolta del 1987, il terzo libro di Magrelli invece, Esercizi di tiptologia (1992), radicalizza i temi della dispersione – spesso tematizzata attraverso un estremo discorso sul corpo e segna un’apertura al mondo esterno del tutto inedita. È soprattutto la dimensione della memoria e del ricordo a irrompere potentemente nella scrittura, affidata a costanti intermezzi in prosa, la vera novità formale nella produzione magrelliana a quest’altezza. Se nella prima raccolta l’io dichiarava frontalmente «Per me la ragione/ della scrittura/ è sempre scrittura/ della ragione»[3], in una precisa simmetria tra la razionalizzazione del reale attraverso la scrittura e una necessaria rimozione dell’emotività del ricordo; in Esercizi di tiptologia, il soggetto poetico si vede come una «talpa, che scava sotto la coscienza»; la scrittura è ora un movimento di disseppellimento: «Ah, che voglia di scrivere, che voglia di zappettare ancora in quella fanghiglia, in quella famiglia di fango»[4]. Le «venature» della seconda raccolta, negli Esercizi, si allargano a dismisura, sfondano la bidimensionalità dell’universo magrelliano e aprono voragini sotterranee. La «tiptologia» del titolo è la ricezione di nuovi segnali prima estranei, sono colpi che muovono il corpo – che nella fenomenologia dell’autore è sempre il primo referente possibile, arrivano da luoghi e tempi inediti: dall’«infernetto» adolescenziale dell’autore, dalla «caldaia nelle cantine» che brucia nella splendida poesia L’abbraccio («Laggiù si brucia una natura fossile,/ là in fondo arde la Preistoria, morte»[5]). Questo carotaggio della memoria ha sempre però una natura dialettica, contraddittoria: le «morte torbe sommerse» che avvampano nel termosifone de L’abbraccio sono le stesse che fanno della camera dove dorme la coppia un «nido riscaldato». La memoria è il luogo buio in cui covano le nevrosi e le irrequietezze, sapientemente levigate nella prima raccolta e già incrinate dalle «venature» della seconda, ma è anche la «famiglia di fango» in cui trovare le tracce del tempo presente.

II. «Mi interessa l’aspetto geologico del passato, anzi, per meglio dire, la geologia della biografia.» Con queste parole, Magrelli confessa in Geologia di un padre (Einaudi 2013) il senso del suo ultimo libro. Ma si tratta, appunto, di un senso già rintracciabile all’altezza della raccolta del ’92. L’operazione di scavo nel tempo lì iniziata trova in questa raccolta di prose un nuovo decisivo aggiornamento. L’autore dichiara ora esplicitamente di essere una «carta moschicida del ricordo».
Nel condominio di carne proseguiva, in maniera convincente, il tema centrale degli Esercizi: la riflessione sul corpo, sulle sue mutazioni e sulla percezione che il soggetto ha di esso. Addio al calcio e La vicevita sembravano piuttosto due tentativi, a larghi tratti riusciti, di plasmare la nuova attitudine magrelliana alla prosa su tòpoi popolari: il calcio e i viaggi in treno. Con Geologia di un padre, la scrittura di Magrelli trova una piena e forse definitiva consacrazione alla prosa breve.
Se in Addio al calcio novanta erano le prose come novanta sono i minuti di una partita di calcio, qui viene ripetuto un gesto di mimesi strutturale: ottantatré sono le prose del libro come ottantatré sono gli anni del padre dell’autore quando muore. Come se la pressante ansia geometrica del primo Magrelli, gradualmente attenuatasi nelle opere successive, avesse comunque l’esigenza di emergere in qualche modo, ingabbiando finché possibile una materia ormai frammentaria ed esplosa.
È nel segno della morte che si apre il libro, con un ricordo d’infanzia. Pranzo in famiglia: il narratore è un bambino che osserva incuriosito il padre chiacchierare con i commensali, e immergere, distrattamente, un dito fasciato in una tazzina di caffè; l’intera garza della fasciatura diventa nera e densa, l’odore del caffè si spande nell’aria. Il ricordo si interrompe quando il bricco del caffè si schianta sul pavimento. È un inizio che porta i segni del trauma. Il caffè è, per associazione visiva, la materia organica cui tutti siamo destinati, come già in una poesia di Ora serrata retinae: «la nera morte araba» che conclude l’ansioso pasto della vita. Ma è anche per metonimia una delle prime connotazioni caratteriali della figura del padre. È, insieme al tabacco, la cattiva abitudine della vita di Giacinto Magrelli, architetto originario della Ciociaria e padre di Valerio Magrelli. È un meccanismo vagamente proustiano quello che innesca la memoria del narratore di Geologia di un padre: se nell’episodio della tazzina il proustismo è sin troppo scoperto, in altri luoghi il meccanismo associativo è simile: è il dettaglio feticistico ad attivare il lavorìo del ricordo. Così succede che il racconto del disseppellimento delle salme dei familiari contenga un piccolo particolare – la crocchia setosa dei capelli della nonna defunta – che richiama al narratore il ricordo della nonna: dei lunghi momenti d’infanzia passati con questa «nonna-sigarillo», dalla fisionomia «identica a quella di Christopher Walken», donna silenziosa e misteriosamente ostile verso il narratore-bambino. Dal ricordo della nonna, nella prosa successiva, si torna alla figura del padre: dalla nonna-sigarillo si passa al rapporto che questa aveva con suo figlio Giacinto, fumatore clandestino in giovinezza e fumatore incallito in età adulta. Quindi, il racconto si sposta sui viaggi giovanili del padre del narratore, e da qui ai lunghi viaggi in macchina della maturità con tutta la famiglia, madre e padre seduti davanti e un Magrelli adolescente e suo fratello ai sedili posteriori. È un continuo flusso della memoria: dalla nonna «secca, scura, storta e leggera come un sigarillo» il passaggio al tòpos – sveviano prima che magrelliano – del fumo e delle sigarette è esclusivamente visivo. Essendo Magrelli un autore dall’immaginario essenzialmente razionalista, questa successione di ricordi non si abbandona mai alle logiche dell’inconscio: l’umore di fondo che attraversa le prose è ancora quello ragionativo e lineare delle prime raccolte poetiche. Quella del narratore è una memoria riflessiva in cui si intrecciano, a volte in maniera struggente, ricordo autobiografico, riflessione speculativa e narrazione aneddotica. Lo stile è quello limpido ed equilibrato del miglior Magrelli: strutture sintattiche piane e geometriche fanno da contenitori a movimenti retorici tipici della sua scrittura: il sottile gusto per l’analogia paradossale (il legno fradicio di una bara disseppellita è un «biscotto troppo a lungo inzuppato»), un immaginario metaforico arguto e profondo («Il figlio come un filo che deve entrare nella cruna della propria crescita. Il padre come un filo che va sfilato»), o bizzarro e tagliente, come quando descrive le vacanze balneari ad Alassio, con la famiglia al completo:

7.

Il nostro amore mancava di caglio: non avevamo l’enzima necessario per dare forma ai nostri sentimenti, e tramutare il siero dell’affetto nella pasta, nel peso, nel senso, nella piena maturità del formaggio. Lontano dal miracolo caseario, ci guardavamo come estranei, e piombavamo nell’alassiopatia.

A volte, un dettaglio episodico viene trasfigurato ed elevato a spunto di riflessione in cui i motivi autobiografici si coagulano con temi universali. È il caso del racconto del ricovero ospedaliero del padre e dei suoi ultimi giorni:

15.

[…] La cosa che più mi commosse, e mi commuove ancora, è il modo in cui si faceva forza con un braccio, seduto sul lettino, spingendo con la mano sinistra come per tirarsi su. […] Ci si puntella così per defecare. Questo, dunque, è il segreto dei segreti. Mio padre cacava se stesso, ossia cacciava via quel tremendo bolo che ormai era diventata la sua vita. Non cercava di trattenerla, al contrario: soffriva proprio perché non riusciva a estrarla. Espelleva se stesso dal mondo, e io, che non lo avevo mai visto al gabinetto, dovevo assisterlo in quel gesto postremo.
Era il contrario di quanto avviene in sala parto. La differenza sta nella mancanza della madre. Per questo, il morente è chiamato a impersonare due ruoli insieme: è la fattrice e il neonato, l’espulsore e l’espulso. Si tratta di ripassare dall’altra parte, e il cunicolo è stretto, nessuno, proprio nessuno può aiutarti. […]
Pian piano è uscito tutto dalla vita, sgusciando via, alla fine, fino in fondo. Il braccio, poi, non gli è servito più, e ha smesso di far leva. L’ho visto sparire sotto i miei occhi. Sarà sbucato dall’altra parte del mondo.

III. Qual è dunque il vero oggetto di Geologia di un padre? Quale la sua prima istanza: quella biografica, quella autobiografica? La cifra diaristica o quella elegiaca?
Sono ovviamente domande con un fondo di ambiguità ineliminabile. Un oggetto letterario come Geologia di un padre difficilmente può essere posizionato in un preciso campo di generi e forme, e non è certo l’unico esempio di questo ibridismo formale oggi. Può essere forse collocato in quel campo di mezzo tra la poesia e la prosa, tanto vivace nella letteratura contemporanea, o in quelle scritture che si situano «all’ombra del romanzo»[6].
Al di là di queste insidie teoriche però, quello che davvero sembra notevole del libro di Magrelli è la capacità di fondere e con-fondere diversi piani formali: confessione, diario, poesia, riflessione, memoir e narrazione sono alcuni dei modelli retorici rintracciabili in Geologia di un padre. Essi vengono inseriti in una architettura formale che porta i segni di una frammentarietà ineludibile – in quanto iscritta in ogni racconto di vita – ma anche le tracce del tentativo di raccogliere il senso di un’esistenza e di un legame, quello con il proprio padre. Questi due piani però, il racconto della vita di un padre e la verità emotiva iscritta nel suo rapporto con il figlio Valerio, sono sempre strettamente legati. Per Magrelli, come già per Kafka, raccontare del padre è raccontarsi.
L’irascibilità estrema di Giacinto Magrelli ha lasciato le sue tracce nelle esplosioni di ira del Valerio maturo che salta a piedi uniti su una stampante non funzionante. Il disgusto del tempo del padre, la sua pena chiamata noia («la Noia Bubbonica») prendono nel figlio le forme diverse eppure uguali dell’ipocondria e della nevrosi continua.

Come nello Svevo della Coscienza, c’è in questo rapporto padre-figlio una continua oscillazione tra chi è «la forza» e chi «la debolezza»[7], una sottile linea di labilità tra chi è il modello e chi l’imitatore: «quello che unisce padre e figlio va cercato in una ombra-aria, in un velo», confessa il narratore.
E dunque il senso profondo di quella «geologia» del titolo è proprio questo: comprendere quanto profonde siano le tracce di un padre nella costruzione di se, analizzarne influenze e somiglianze come faglie e placche tettoniche, capire che non è nel proprio sguardo verso il padre che ci si costruisce ma nel suo sguardo posato su di noi – tòpos emotivo ancora di matrice sveviana[8]:

29.

[…] Mi guardo attraverso i suoi occhi: ci siamo morti entrambi, reciprocamente. Con la sua morte, è stata la nostra coppia a scomparire. Ormai siamo spaiati, definitivamente. Perciò, parlando di lui, passo dalla sua parte, gli giro dietro, gli vedo le carte, mi vedo al di là del tavolo da gioco, e scopro che per il suo sguardo io non esisto più. Morendo, lui ha perso suo figlio. Un nodo talmente complesso da non capire più a quale dei due capi ora mi trovi.


[1] A. Afribo (acd), Poesia contemporanea dal 1980 a oggi. Storia linguistica italiana, Carocci, 2007, p. 32.

[2] D. Piccini (acd), La poesia italiana dal 1960 a oggi, Rizzoli, 2005, p. 548.

[3] V. Magrelli, «Io non conosco», in Ora serrata retinae, Id., Poesie (1980-1992) e altre poesie, Einaudi, 1996, p. 93.

[4] Id., «L’anti-Mazur», in Esercizi di tiptologia, cit., p. 292.

[5] Id., «L’abbraccio», op. cit., p. 250.

[6] R. Donnarumma, Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno, in “Allegoria”, 64, luglio/dicembre 2011, 46.

[7] I. Svevo, La coscienza di Zeno, Einaudi, 1987, p. 34.

[8] «Invece la morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. Il paradiso non esisteva più ed io poi, a trent’anni, ero un uomo finito. Anch’io! M’accorsi per la prima volta che la parte più importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente. […] Io piangevo lui e pure me, e me solo perché era morto lui. Fino ad allora ero passato di sigaretta in sigaretta e da una facoltà universitaria all’altra, con una fiducia indistruttibile nelle mie capacità.»

(Ibidem, p. 33)



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